PREFAZIONE

I GRANDI TEMI «MESSI IN SCENA»

 

Ho sempre guardato con grande ammirazione il pittore contemporaneo che riesce a cimentarsi con i grandi temi del passato: la figura, la natura morta, il paesaggio. Carlo Amadori è uno di questi! La sua disinvoltura e capacità nell'affrontare la figurazione realistica ha sempre poggiato soprattutto nel saper decontestualizzare le immagini e nel saper accostare fisionomie appartenenti a luoghi e situazioni molto diverse.

Amadori pittore, da qualche anno da quando soprattutto lo seguo come animatore di mostre culturali nell'ambito di Abitare il Tempo di Verona, si è fermato a guardare il mondo che lo circonda cercando di interrogare i miti del passato. In molte aree culturali diversi autori hanno cercato di ritrovare nel passato forme e comportamenti, ma il passato di Amadori non si basa semplicemente su immagini riscoperte. Le sue figure sono ben note, e non lo aiutano a creare un clima di pittura «classica», ma di pittura che usa archetipi e figurazioni classiche che gli consentono di poter affrontare i grandi temi legati alla nostra esistenza.

La sua pittura, sempre meno realistica, accenna a grandi figure della mitologia e le ricompone all'intemo di particolari scene fatte di natura costruita.

Una natura che ha quasi sempre appunto il ruolo di teatralizzare la composizione, una natura ricca, carica, spessa. La mia formazione di pittore e architetto, mi ha portato più che a cercare di approfondire i temi dei suoi quadri, a guardare: come semplifica il drappeggio di una scultura classica, come lascia cadere sui fianchi del quadro le grandi scene di verde, come stende il colore per il cielo che vuole sembrare un velario dietro il quale viene proiettata una forte e omogenea luce azzurra.

 

                                                                                                                                Ugo La Pietra

Milano, novembre 1988

 

 

Rare volte credo mi sia capitato, come nel caso di Carlo Amadori, di essere indotto ad interrogare il senso di una esperienza pittorica attraverso le intitolazioni che la corredano. Non credo di operare arbitrariamente sottolineando subito, per esempio, la ricorrenza di un titolo che risulta a mio avviso veramente in qualche modo chiave: Alla ricerca dell'equilibrio fra essere e tempo, che trovo almeno in un dipinto del 1981, in uno del 1986, e in un altro del 1987. Ed è significativo d'altra parte l'insistere sul «tempo»: L'immutabilità del tempo è il titolo di un dipinto del 1975, Frammenti senza tempo, di uno del 1984. Del resto è subito anche chiaro che fin dai primi anni Settanta la definizione di una temporalità come sospesa si è posta quale caratteristica basica del figurare di Amadori.

Alla ricerca dell' equilibrio fra essere e tempo del 1987 a sua volta esplica esattamente, mi sembra, nell'impianto iconologico, il senso di quella che ritengo aver ragione di assumere come una motivazione chiave: in una sorta di parco, in primo piano alcune figure di giovani donne sedute sul prato, una che tenta uno strumento a corda, le altre due conversanti, immote, profilate tutte su uno scenario verde cupo, sontuoso, oltre il quale è uno scenario di teatrale sintesi classica, edifici, templi, rovine, in parte riconoscibili, un tumolo di Cerveteri, riuniti innaturalmente come in un dipinto settecentesco appunto di rovine. E chiaro dunque il gioco delle parti da porre in equilibrio: emblematicamente l'essere, l'esserci del nostro presente, le figure femminili, e il tempo, la storia preterita, quei monumenti remoti.

L'equilibrio ricercato è la possibilità di identità, fra presente e passato, fra contingenza e memoria.

Forse l'equilibrio raggiunto, o la parvenza del suo raggiungimento, è nella fissità, nella sospensione, in quella sorta di stupore tipico da anni della pittura caparbiamente figurante (sorretta dalla premessa di un esercizio disegnativo capziosamente analitico) di Amadori. E di qui quella singolare sorta di visionarietà immota, che non sposta infatti vorticosamente la visione, quanto piuttosto spiazza il senso di questa. Tanto che il fare di Amadori risulta più oggettivo di quello di un Delvaux (che immagino ami), giacché non è mai sostanzialmente surreale come non è neppure tuttavia «metafisico». Al più operando una sorta di spostamento nell'insolito, praticando una sorta di sospensione, sviluppando quasi sempre il senso di qualcosa come un'attesa tragica. Sia che questa investa la presenza di figure, attuali o statue antiche umanizzate, sia che investa situazioni ambientali, ove una presenza architettonica in realtà para-antica si impone come un termine di riferimento. La visionarietà è nella luce livida che costantemente investe il tutto, spesso una singolare luce meridiana paradossalmente lunare.

Un altro titolo forse ci può soccorrere a questo punto: Somnium, del 1984. Forse il tutto va infatti convertito in dimensione onirica; quella sospensione è insemina la vertigine lucida e ferma di uno spiazzamento onirico. Solo la pittura conosce la bellezza della inafferrabilità dei corpi, ci ammonisce un altro titolo, del 1981-82; ed è la spia di una assegnazione di ruolo alla pittura in quanto strumento di possibile concretezza appunto di un'inafferrabilità altrimenti scontata. Come se Amadori volesse dire: la realtà non è direttamente traguardabile; la si può apprendere soltanto nella vertigine di una visione, ove perde il senso comune per investirsi di un'interrogazione, di un'ansia, di una tragica attesa. E solo la pittura può consegnarcela, la realtà, in un tale dimensione conoscitiva. Solo la pittura può offrirci una possibile via per raggiungere l'equilibrio fra essere e tempo. Sospendendo insieme il tempo dell'esistenza e il tempo storico, e unificandoli nella visionarietà del somnium. Ecco dunque presenze, figure o architetture, come miraggi emblematici concorrenti in un possibile equilibrio ansiosamente cercato.

Dal quotidiano Amadori si è mosso all'inizio degli anni Settanta, nei termini di quel particolare «iperrealismo» italiano che, più che impietosamente ottico, sembrava riposare sulla certezza costruttiva una sorta di «nuova oggettività». Ma a ben vedere già allora Amadori fissava le immagini in un loro prelievo che le destituiva della pressione contingente del tempo quotidiano. Ed ecco infatti che la visionarietà particolare dell'immaginario amadoriano già sopravveniva a definire una sorta di spettralità del campo del quotidiano stesso. E ben presto in questo sopraggiungevano presenze del tempo passato, singolari ma spesso dominanti inserti démodés. E il dialogo vi si istituiva proprio fra presenza attuale, se vogliamo relativa all'esserci che ci riguarda, e presenza démodée, se vogliamo relativa alla misura del tempo, trascorso. Non per assumere tuttavia i ruoli di una conflittualità, quanto in una sorta di continuità. In fondo proprio in ragione de L'immutabilità del tempo, come recita il titolo di un suo dipinto del 1975.

E alla fine degli anni settanta che la presenza del passato si fa più incalzante, nella pittura di Amadori, definendovisi esplicitamente come «antico»: il ciclo dei dipinti sulle ville venete e toscane, del 1977. L'antico come architettura, anzitutto, ma poi anche come statua. Si sviluppava allora una dimensione nuova nell'immaginazione di Amadori: la sospensione si trasformava in stupore enigmatico, interrogativo. Non si trattava di un rapporto con l'antico per assimilazione formale, per citazione stilistica, ma come oggetto di immagine, in particolare oggetto architettonico, appunto. Edifici in parchi, e statue da giardino. Le quali divengono poi anche protagoniste, figure mitiche fra l'evocato nostalgico e il fittizio da scenografìa cinematografica. Quelle statue si sono quindi animate, umanizzate, e dialogano ora dal tempo con i compagni, anzi le compagne, del nostro esserci quotidiano. Ma ormai lo spiazzamento, è avvenuto, il quotidiano resta se mai una possibile citazione entro la visionarietà del somnium, nell'ansia appunto di un possibile equilibrio che intanto almeno la pittura può testimoniare, in qualche modo raggiungendolo nello scenario dei simulacri figurati.

Che sono sempre da Amadori giocati preferenzialmente su colori lividi, appunto in luminosità fortemente vibrate, ma come lunari, anziché solari. Immaginazione notturna si potrebbe dire la sua, ove ogni circostanza di presenza assume un ruolo di apparizione, naturalmente inquietante, emblematica com'è di un'interrogazione venata di tragica attesa.

In fondo Amadori mi sembra non creda ne al presente, ne al passato, ma soltanto alia possibile sopravvivenza nel sottile discrimine di un equilibrio ansiosamente ricercato, ma non controllabile, ne tanto meno archiviabile. Perciò nella sua pittura le figure (umane o architettoniche) di un tempo della storia recitato, non meno che le figure di un tempo dell'esistenza altrettanto recitato. Di fronte al nostro smarrimento, al nostro perduto equilibrio.

 

                                                                                                                            Enrico Crispolti

Modena, novembre 1988

 

 

Akragas

Di incredibile opulenza, la più bella città dei mor-

tali celebrava Pindaro. In nessun luogo eccetto

che al Partenone si riesce ad avere una simile evo-

cazione, diceva Berenson. E le pietre sono del co-

lore del grano e il cielo è perennemente terso e gli

agili sentieri scivolano tra gli ulivi millenari.

L'atmosfera sprigiona aure magiche e strane. Ab-

biamo di fronte l'esempio più probante della per-

fezione sublime, sicuramente ci troviamo molto

vicini agli Dei.

 

Appunti dal viaggio in Italia di C. Amadori, 1982.

 

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